Ci sono dei momenti in cui la solidarietà emerge fragorosa superando distanze e differenze. Accade per esempio quando ci sono dei bambini con gravi patologie o ferite da curare e non è possibile farlo dove si trovano. Qualcuno, che viene da un mondo diverso, il nostro, incappa in queste realtà e tenta di dare un finale diverso storie già segnate.
E’ quello che spesso succede durante le missioni internazionali dei nostri militari, sempre attenti alle richieste della popolazione civile.
A quel punto si attiva una catena di assistenza e di umanità per trasportare il piccolo paziente da un paese martoriato fino a qualche ospedale italiano dove il miracolo è possibile. Una catena che era fatta di impegno estemporaneo e improvvisato: i piccoli restavano in balia degli eventi, degli spazi disponibili, lontani dai loro cari, sempre in attesa di un rientro che non può garantire cure adeguate e prolungate.

A Trieste 16 anni fa un gruppo di persone ha deciso di dare vita ad una struttura stabile per coordinare queste “trasferte della speranza”, lavorando assieme ai militari, alla croce rossa e a diversi ospedali italiani per assicurare un appoggio, anche se temporaneo, a questi piccoli malati del mondo e ai loro familiari.

E’ la Fondazione Luchetta Ota D’angelo Hrovatin per i bambini vittime della guerra, nata in memoria dei quattro operatori dell’informazione uccisi durante in lontani conflitti.
Una Onlus che ha realizzato una casa accoglienza e che grazie a tanti volontari garantisce il trasporto dei bimbi, la loro assistenza ma soprattutto l’affetto e l’attenzione che questi piccoli pazienti richiedono. E manda medicinali e materiali sanitari per i loro coetanei rimasti nei paesi d’origine.

Ho visitato la casa di prima accoglienza di Trieste nello scorso luglio in occasione della consegna del Premio di giornalismo Marco Luchetta, organizzato dalla Fondazione.
La prima sensazione che ho percepito è stata quella di serenità, nonostante fossi entrato in un luogo dove ci sono bambini malati e sofferenti. Serenità dettata da un’ atmosfera casalinga, fatta di momenti condivisi e di autogestione dei locali da parte delle famiglie che accompagnano i bimbi, di routine, del cucinare insieme e dei giochi in cortile di tanti piccoli provenienti da paesi diversi.
Quasi che fossero a casa loro. Che si chiami Afghanistan, Albania, Guinea Bissau, Mongolia o Venezuela.