All’estremo di una lunghissima spiaggia contornata da palme, nell’isola di Nosy Be, un paradiso di foreste e mari turchesi al nord del Madagascar, dove i resort e gli hotel per turisti crescono come funghi, c’è una montagna spaccata. All’interno, come tante formiche, vi lavorano uomini, donne e bambini. Staccano pietre dalla roccia, con delle semplici aste di ferro, le trasportano sulla testa fino alle capanne del villaggio, dove le spaccano a colpi di martello fino a ridurle in ghiaia. C’e’ un ticchettio continuo nelle stradine polverose, ci sono sacchi di pietre accatastati, bambini sporchi e malati, occhi di donne senza speranza.

IMG_3126rSono stato nel villaggio degli spaccatori di pietra con i rappresentanti di due associazioni italiane, Kairos e Birimbao, che vogliono aiutare questi sventurati. Poche ore prima del mio arrivo il loro intervento ha salvato la vita ad un bimbo che stava per cedere alla denutrizione e alla dissenteria.
Ce ne sono diversi di bimbi in questa specie di girone dantesco tropicale: scalzi, con i vestiti laceri, sporchi di polvere e fango. Quasi tutti sono affetti da infezioni cutanee e malattie respiratorie. Non solo l’acqua del villaggio non è potabile e viene da due pozzi inquinati, ma i bimbi aiutano spesso i grandi nel lavoro: trasportano i pezzi di roccia, spaccano quelli più piccoli, portano avanti e indietro l’acqua. E naturalmente l’assistenza sanitaria è a pagamento.

Anche per le donne la giornata trascorre scandita dai colpi di martello: anziane e giovani dall’alba al tramonto battono con il martello le pietre, altre in una processione continua, portano nuove rocce dalla cava.
E’ questa l’unica fonte di reddito per il villaggio: le pietre una volta ridotte a pezzetti vengono vendute alla fiorente industria edilizia come ghiaia per 50 centesimi a sacco. I più abili riescono a fare 5 sacchi al giorno, portando a casa (una capanna) circa due euro e mezzo per sfamare la famiglia.