Due carri armati e un drappello di soldati libanesi in assetto da guerra sorvegliano l’inizio della strada che sale verso le montagne dello Chouf. Controllano tutte le macchine che lasciano la costa nei pressi della città di Sidone per arrampicarsi verso le alte terre dell’antico e misterioso popolo dei Drusi. La strada si inerpica attraverso boschi di cedri e vette innevate disseminata qua e là di altri posti di blocco. Finché si arriva nella cittadina di a Mouktara e si imbocca il viale che conduce alla Fortezza. Qui dopo una attenta perquisizione e aver lasciato i telefoni cellulari alle guardie, si accede all’antico castello, ora dimora-prigione di uno degli uomini più potenti del Libano, Walid Jumblat.
Il leader storico del partito socialista e della comunità drusa vive rinchiuso nella sua roccaforte sulle verdi alture da circa un anno, da quando la misteriosa e terribile catena di attentati, che ha eliminato uno dopo l’altro giornalisti e politici in Libano, è arrivata ad uccidere l’ex primo ministro Rafik Hariri.
L’inchiesta internazionale su quella terribile strage è in pieno svolgimento e punta sui servizi segreti di Damasco, ma intanto oggi in Libano molti vivono nella paura. Il figlio di Hariri, Saad , il più votato al Parlamento, non mette piede nella sua terra per non essere ucciso. Bahia Hariri, la sorella dell’ex premier vive rinchiusa nella sua casa a Sidone. A dicembre un’autobomba ha ucciso il deputato cristiano antisiriano Gebran Tueni, 48 anni, direttore del quotidiano di Beirut An Nahari. Si vocifera di una lista di condannati a morte e tra questi al primo posto ci sarebbe proprio Jumblat.
L’uomo politico dopo aver ricevuto circostanziate minacce non mette piede fuori dalla sua fortezza dove vive con la bellissima moglie Noura Charabati, di origine siriana. I libanesi l’hanno soprannominata la “principessa” ed è lei a tenere i contatti con la popolazione e gli esponenti della comunità.
“Vivere oggi in Libano è estremamente rischioso e angosciante” ci racconta Noura Jumblat in francese perfetto “soprattutto perché non sappiamo da dove arrivi la morte, ma sappiamo che può essere dietro ogni angolo, in ogni istante, in maniera terribile”. “Per alcuni – aggiunge la signora Jumblat – questa può essere considerata una vita normale, per altri è una vita da reclusi, in costante pericolo”.
La Principessa, che indossa con grande eleganza jeans occidentali, non vuole però sottostare al ricatto della paura. Con la sua Range Rover blu percorre avanti e indietro le strade dello Chouf per assistere la popolazione. Saliamo in auto con lei e ci facciamo raccontare questa vita da “tigre in gabbia”. “Guardate – ci dice subito sorridendo e un po’ ironica – niente scorta. Chissà se vi riporterò qui sani e salvi?” L’idea di essere su una macchina bersaglio non mette certo a proprio agio, ma la disinvoltura della Principessa è rassicurante. Lungo la strada si incrociano i Drusi, discendenti di una antica setta proveniente dall’Egitto, all’origine musulmana, ma poi aperta ad elementi cristiani, induisti, ebraici e ora piuttosto lontana dall’Islam. Con i loro misteriosi rituali abitano da secoli queste montagne tra Libano, Israele e Palestina. Alcuni indossano gli abiti tradizionali, una tunica e un paio di pantaloni neri molto larghi, a sbuffo.
“Nei nostri villaggi la gente ha organizzato un sistema di auto difesa: a turno i cittadini vigilano, controllano le strade, chi entra e chi esce, ogni auto che passa”.
Noura è conosciuta da tutti. E’ stata una dei protagonisti del movimento “12 marzo”: la mini rivoluzione esplosa lo scorso anno nei giorni seguenti l’omicidio di Rafik Hariri, che ha portato in piazza centinaia di migliaia di libanesi per invocare l’indipendenza del loro paese. Una rivolta popolare dell’indignazione che ha contribuito al ritiro delle truppe siriane dopo quindici anni di occupazione. La principessa è scesa in piazza assieme alla gente, le sue foto hanno fatto il giro del Medio Oriente. Noura che ha conosciuto il futuro marito Jumblat in Francia, è una donna abituata a viaggiare molto all’estero: vacanze a Cortina, meeting a New York, Londra, Parigi.
Nel 2003 assieme ad altre quattro donne arabe ha scalato la vetta del Kilimangiaro. Ora ogni volta che deve lasciare le cime dello Chouf, le guardie della sua sicurezza tremano. Eppure lei, pur limitando gli spostamenti, continua a svolgere il suo lavoro di Presidente del Festival Internazionale di Beiteddine. Da alcuni anni ogni estate su queste montagne organizza un mese di concerti con artisti di primo piano della scena musicale mondiale. E’ impegnata nella lotta alla tutela ambientale, con un grande progetto per reintrodurre i cedri, simbolo del paese, nelle zone dove sono stati sradicati. E continua il suo lavoro diplomatico a sostegno del marito e di un Libano indipendente.
Terminato il giro nei villaggi, Nuora Jumblat ci riporta nel castello di Mouktara per mostrarci la sua dimora. La fortezza di origine medioevale è stata ristrutturata più volte, nel settecento e nell’ottocento. Costruzioni in pietra chiara si alternano a giardini, fontane, terrazze con splendida vista sulla valle. Scale e scalette di marmo conducono a piccoli cortili, nei quali fanno capolino splendide bouganville.
In una delle due ali del palazzo c’è la residenza privata: diverse sale con le volte di pietra che attraverso gigantesche finestre si aprono sul panorama mozzafiato delle valli dello Chouf. Enormi quadri stile sovietico ricordano gli anni dell’alleanza di Jumblat con Mosca.
I grandi saloni sono circondati da moderni ripiani in legno retroilluminati su cui poggia una grande quantità di libri. Walid Jumblat, che ha 57 anni ma ne dimostra di più, è un appassionato di lettura. Ha tre figli, Taimour, Aslan e Dalia e una discendenza di tutto prestigio. Suo padre, Kamal Fouad, più volte ministro e fondatore del Movimento Nazionale Libanese, venne ucciso sulla strada che porta al Castello il 16 marzo 1977. “Prego perché quando mi uccideranno non accada quel che è successo allora” ha detto pubblicamente Jumblat in una sorta di testamento, riferendomi alla furia della comunità drusa dopo l’attentato che uccise il padre e che portò alla morte di 200 cristiani maroniti.
“Spero che quando sarà il mio turno la reazione della mia gente sarà composta e calma” aggiunge l’uomo che ha vissuto gli anni ben più difficili della guerra civile ma che conclude: “Oggi io e mia moglie viviamo rinchiusi come prigionieri. E tanti altri come noi. Ma è soprattutto il Libano ad essere privo di libertà”.