Saranno difficili da cancelllare dalla memoria i giorni trascorsi ad Haiti. I cadaveri per le strade di una città rasa al suolo. Le decine di bambini con gli arti amputati buttati su letti di fortuna nei vialetti degli ospedali. Gli sguardi impietriti delle donne e degli uomini accampati sotto tende di fortuna nelle strade e nelle piazze. L’odore nauseabondo che veniva su dalle macerie dove qualcuno si ostinava a scavare a mani nude. L’anarchia nelle strade del centro di Port au Prince lasciate in mano alla folla che cerca disperata acqua e cibo tra le rovine, mentre la polizia spara per disperdere i saccheggiatori.

2_0000250_1_bigDifficile portare i soccorsi con quello che è successo, difficile dare da bere e sfamare un milione, forse due di sfollati. A volte per percorrere poche dùcentiaia di metri serve un’ora, rimanendo bloccati tra auto e folla assieme ai camion degli aiuti. L’aeroporto intasato da materiale proveniente da tutto il mondo accatastato in attesa di riuscire a portarlo fuori sotto scorta. E migliaia di persone in attesa tutto attorno all’aeroporto.

Ho anche visto però decine di medici arrivare da ogni parte del mondo per operare 24 ore su 24 come volontari all’ospedale Saint sdemien della Fondazione Francesca Rava, uno dei pochi rimasti in piedi.
E tanti darsi da fare senza cedere alla stanchezza.
Tra loro Marco, panettiere accorso subito per dare il pane ai malati e alle suore che lo portano tra la gente del loro quartiere, suore che pur essendo la loro casa rimasta in piedi, dormono per strada assieme ai loro sfollati.