Entrare a Gaza è un po’ come entrare in una enorme prigione. Da una parte c’e’ il mare, per il resto questa striscia di terra, lunga appena 40 chilometri e larga dieci, è tutta circondata da muri, filo spinato, reti elettrificate. Ci vivono un milione e mezzo di palestinesi e 7500 coloni israeliani.Per entrare a Gaza ci vuole un permesso speciale del Governo di Tel Aviv e si deve passare per il Valico di Erez, una specie di tunnel blindato, dove telecamere automatiche ti parlano da dietro sbarre metalliche. Non si può passare in auto, non possono entrare israeliani, non possono uscire palestinesi che abbiano meno di 35 anni. Una immensa prigione a cielo aperto.
Sono tornato nella striscia di Gaza nel novembre 2004, nei giorni della malattia di Arafat e dopo la decisione di Sharon di sgomberare gli insediamenti dei coloni. C’ero già stato alcuni mesi prima, ma la situazione che ho trovato è impressionante. Nel solo mese di ottobre ci sono stati quasi 200 morti, interi quartieri sono stati rasi al suolo dai carri armati. Dal finestrino del taxi mi sembra di vedere un paese colpito da un terremoto.
Ho cercato di capire. Ho cercato di comprendere la vita quotidiana di palestinesi e israeliani, le difficoltà di spostarsi, la paura di tutti i giorni, la stanchezza per una guerra senza apparente fine. Sono stato nelle loro case, ho viaggiato sulle strade protette e attraverso i “check point”.
Grazie ad una micro-telecamera ho ripreso anche quello che di solito resta dietro le quinte: i posti di blocco, le torri di guardia, i carri armati sulle dune, i convogli scortati che portano i coloni nelle loro case, le abitazioni requisite dall’esercito. Sono stato nei mercati arabi e ho trovato cd e cartoline con il ritratto di Osama Bin Laden.
Sono stato nelle serre israeliane e ho scovato palestinesi che lavoravano per i coloni e che non vorrebbero che “i nemici” se ne andassero.
Ho parlato con i pescatori, con chi vive barricato in casa, con i soldati israeliani spediti qui senza un vero motivo.
Ho incontrato un miliziano delle brigate dei martiri di Al Aqsa che si diceva pronto ad uccidere anche i bambini, perché “saranno i soldati di domani”.
Ho cercato di raccontare lo smarrimento di chi si trova di fronte alla fine del proprio leader e l’angoscia di chi deve abbandonare dopo anni le proprie case e le proprie terre.