Alle sei di sera il centro di Caracas si svuota. La gente corre a casa e si rinchiude dietro porte blindate e finestre sbarrate. Se decide di uscire al massimo va nei bar dentro i centri commerciali sorvegliati da guardie armate. Quando viene buio i grandi viali ai piedi dei grattacieli anni 70 diventano terra di nessuno, in mano alle gang della malavita. Delinquenti, spacciatori di droga e un esercito di ragazzine, che calano dai barrios, le bidonville che dalle colline circondano tutta la capitale del Venezuela. Sono le baby prostitute, bambine e adolescenti, dai 9 ai 17 anni. Le trovi lungo Avenida Lacuna, agli angoli del Parque Central, davanti agli hotel per ricchi uomini d’affari.
In auto attraversiamo strade spettrali – nessuno per paura si ferma neppure ai semafori – e poi ci accostiamo ad un gruppetto di adolescenti che sta trattando con chi ci precede. Quando abbassiamo il finestrino il loro stupore è grande: sul sedile al mio fianco c’è una donna sui 50 anni, ben curata e molto coraggiosa. Si chiama Nury Pernia. E’ un ex prostituta che porta speranza. Nury prima ancora di parlare offre alle ragazze mani piene di preservativi. La voce si sparge in un attimo e attorno alla macchina arrivano in tante. Poi stabilisce un contatto con la capobanda, si informa, prende accordi per rivedere le ragazze più in difficoltà il giorno dopo nella sede di Ambar (Associacion de Mujeres para el Bienestar y Asistencia Reciproca), l’associazione sostenuta dal Cesvi. Con noi c’è anche il coordinatore per il Venezuela dell’associazione di Bergamo, Luigi De Chiara, un uomo del sud che ha già lavorato su questi temi in Perù.
Ci appostiamo davanti ad uno degli alberghetti dove le ragazze portano i clienti, in una strada desolata come le insegne al neon degli Hotel. “Se vedo un cliente entrare con una minorenne scatta la foto, poi saltiamo giù e facciamo irruzione – ci dice – voglio prenderli in flagrante”. Lo ha già fatto più volte: con i proprietari prima minaccia di chiamare la polizia (piuttosto poco efficace vista la corruzione che regna tra le forze dell’ordine), poi trova un accordo: l’impegno a non fare entrare più minorenni e nel caso a segnalarle all’associazione. La notte è finita: in giro c’è più polizia del solito. Da poche ore sono state trovate due ragazze, barbaramente torturate e uccise.
La casa Hogar di Ambar si trova poco distante dalla stazione della metro Propatria, periferia nord ovest di Caracas, ai piedi di colline interamente ricoperte dai barrios. L’associazione inventata dieci anni fa da Nury accoglie qui le ragazze disperate, quelle che vivono per strada, che non hanno più nulla, tanto meno un futuro.
“Di volta in volta ospitiamo una trentina di ragazze” ci racconta la presidente, “vengono su base volontaria, perché la voce circola, poi tornano e alla fine restano per due-tre mesi”. Nella casa, un edificio a tre piani, le ragazze vengono visitate in ambulatorio e assistite da una psicologa: il primo obiettivo e di restituirgli autostima, farle tornare ad avere un’ identità. Anche giuridica. Un avvocato aiuta molte di loro sprovviste di documenti, addirittura inesistenti per l’anagrafe. Poi si cerca di costruire il futuro di queste adolescenti a rischio: corsi di cucito, di parrucchiere, di arti plastiche, di computer.
“La prostituzione minorile è molto diffusa a Caracas – spiega Nury – ma nessuno ne parla, nessuno se ne occupa. E’ un problema culturale: per molte famiglie è normale, per molte ragazze è l’unico modo di portare soldi a casa o per mantenere i figli”. Già, perché molte di queste adolescenti diventano mamme a dieci, dodici anni. Al piano superiore della casa Hogar c’è infatti un asilo dove vengono tenuti i piccoli di queste ragazze o di quelle che non hanno altro posto dove lasciarli.
Molte delle mujeres de la ruta hanno subito abusi sessuali, spesso in famiglia. Per resistere in strada si imbottiscono di alcol e di droga, in particolare la piedra, un devastante misto di colla e solventi che si annusa per pochi bolivar.
“Non facevo più nulla, avevo smesso di studiare, passavo le giornate per strada” mi racconta Joanna, 17 anni, un viso angelico e un figlio di 10 mesi. E quando ricorda perché se ne è andata di casa (“per incomprensioni con mio padre”, dice) i suoi occhi si rigano di lacrime. E’ un attimo, perché dopo poco le torna il sorriso: è il suo compleanno, le altre ragazze e le insegnanti le hanno preparato una torta con una candelina.
Jerica invece di anni ne ha appena 14. Ha un cappello bianco in testa che contrasta con la sua pelle scura. E’ curata, pulita, sembra una ragazza benestante. Acconsente di farci vedere la sua casa, all’interno del vicino barrio. Andiamo con lei, una giovane insegnante-assistente sociale e altre due ragazze. Le macchine fotografiche nascoste in uno zaino e dopo pochi metri i primi segnali che stiamo entrando in zona “vietata”. Gruppetti di ragazzi intenti a far nulla ci fermano più volte. Danno il via libera solo dopo aver parlato con le ragazze e ci salutano. Dopo poco si lasciano le strade con le auto e si inizia a salire in stretti cunicoli a gradini che si inerpicano tra costruzioni di mattoni, fogne all’aperto e porticine che introducono in stretti cortili. Un vero labirinto, una casba di cemento e lamiere ondulate.
Dopo una quindicina di minuti arriviamo a casa di Jerica: per entrare bisogna passare dall’appartamento dei vicini, poi si esce su un tetto e qui c’e’ la sua stanza. Un tugurio di 3 metri per due, i muri sporchi color turchese, nessuna finestra, un solo letto che occupa tutto. A fianco un’altra costruzione con un cucinino e un’altra stanza dove vive la madre e il fratellino minore. Non c’è bagno, usano quello dei vicini. “Mio padre ci ha lasciato quando ero piccola” racconta la ragazza “mia mamma è senza lavoro e riceve qualche soldo da una zia”. Inizia a piovere e dal tetto entra acqua nella stanza. Jerica però sorride e dice che sogna di andare a scuola e di diventare parrucchiera. E’ talmente forte che penso ce la farà. Grazie anche a Nury, ad Ambar e al Cesvi.