Quando sono arrivato nel campo profughi vicino a Pretoria nessuno portava cibo da diversi giorni. L’atmosfera tra le grandi tende marroni, dove migliaia di persone sono costrette a vivere, rassegnata. Silenziosi uomini e donne, anziani e bambini, per la maggior parte immigrati da altri paesi africani, Camerun, Congo, Zimbawe, Mozambico, Somalia, Eritrea. Fuggiti da guerre e carestie avevano trovato in Sud Africa una nuova vita. Molti di loro avevano una casa, un lavoro, un’esistenza normale. Finché nella scorsa primavera sono stati scacciati dalle loro abitazioni da una folla inferocita in preda ad una rabbia xenofoba. Alcuni sono stati uccisi, molte case date alle fiamme, tutti costretti ad una nuova terribile fuga. Il governo di Pretoria prima ha cercato di rimandarli nei paesi da dove erano scappati, poi ha fatto finta di nulla lasciandoli accampati ai bordi delle strade e nelle chiese. Infine ha messo in piedi alcuni campi profughi alle periferie delle città, nascosti tra un cavalcavia e l’altro delle autostrade.
Ne sono sorti una decina di campi, soprattutto intorno a Johannesburg e Pretoria. Ce ne sono di grandi e di piccoli, tutti recintati da reti e filo spinato. Ufficialmente però non esistono. Il governo Sudafricano non se ne occupa se non mandando la polizia a sorvegliare che nessuno scappi: non hanno cibo, acqua, medicine, servizi igienici. Neppure l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati è stato autorizzato ad intervenire.
Gli unici che riescono a portare assistenza sono i volontari di qualche associazione. In prima fila quelli di Medici senza Frontiere che con un camper girano di campo in campo visitando i malati, portando medicine e quello che possono. Davanti all’automezzo c’è una fila di persone che chiedono consigli per infezioni, cerotti per vesciche, pillole per raffreddori e tosse. Poi i volontari di Msf visitano anziani e bambini, passando di tenda in tenda, scambiando due parole e accendendo qualche sorriso. Il resto della giornata nel campo è vuoto.
Centinaia di persone trascorrono ora dopo ora, giorno dopo giorno, in attesa del nulla. Passano il tempo giocando a carte, lavando i vestiti nei catini di plastica che poi stendono ad asciugare sulle reti metalliche che circondano il campo. I bambini tirano qualche calcio ad un pallone o inventano giochi tra la polvere mentre aspettano che qualcuno porti da mangiare. In una delle tende incontro una donna disabile, in sedia a rotelle.
Mi racconta la sua vita in uno spazio così ristretto, senza un bagno, senza acqua corrente, senza nessuno che l’aiuti. Mentre stiamo parlando ad un certo punto sulla strada sterrata fuori dalla rete del campo arrivano due furgoni di un’organizzazione umanitaria islamica. E’ arrivato il cibo!
Si intravedono due grandi pentoloni di zuppa di fagioli e alcuni sacchi di pane da distribuire. Subito è un corri corri tra urla di gioia, soprattutto dei bambini, per mettersi in fila. Da una parte gli uomini, dall’altra le donne e i bambini, uno dietro l’altro attendono con un barattolo di plastica in mano, la propria razione di minestra. Poco oltre viene dato a ciascuno un pezzo di pane, che i più piccoli mostrano orgogliosi e felici come fosse un trofeo conquistato. Ci sono madri con i figli infagottati sulla schiena, padri con i bimbi in spalla, nessuno si lamenta.
Anzi, con grande dignità e quasi vergogna porgono la loro ciotola per ricevere un pasto che aspettano da giorni. Un’emergenza di cui nessun organismo internazionale si vuole occupare e che su giornali e tv italiani praticamente non esiste.